14 gennaio 2010

Kit accendi-fuoco

Questo è il mio piccolo kit per accendere il fuoco. E' costituito da un acciarino (anche se sarebbe più corretto chiamarlo firesteel), un accendino, una decina di fiammiferi (e il relativo contenitore stagno, dotato di pietra focaia incastonata sul fondo) e un ulteriore contenitore stagno (quello bianco) all'interno del quale ci sono numerosi batuffoli di cotone intrisi di olio di vasellina.

Foto 1. I componenti del kit.

Il tutto è comodamente trasportato all'interno di un sacchetto di pelle, realizzato interamente a mano (1).

Foto 2. Il kit all'interno del sacchetto.

Teoricamente, per accendere un fuoco in modo rapido ed in qualsiasi condizione, sarebbero sufficienti l'acciarino e i batuffoli intrisi di olio. Ma siccome, per me, il momento dell'accensione del fuoco varia anche in base all'ispirazione del momento, per così dire, ho inserito anche strumenti dall'utilizzo più immediato. Del resto, non è un kit di "sopravvivenza", quindi non è necessario che sia minimale.


(1) in origine, esso fu concepito come sacchetto porta-monete, ispirandomi a quelli del periodo medievale.


M.

Tascapane di cuoio

Ho realizzato questo tascapane per le brevi passeggiate "silvestri", in cui l'equipaggiamento è spesso ridotto al minimo, trattandosi in prevalenza di cibarie e poco altro.
Cucito interamente a mano, è costituito da un'unica tasca di circa 30x25x10 cm, chiusa da una patta a cui è attaccata una fibbia di ottone (1).La tracolla è realizzata in cuoio, e anche in questo caso (tenendo fede ancora una volta a quanto espresso nella nota 1), ho dovuto "improvvisare" un sistema di regolazione della lunghezza, dato che non avevo fibbie più grandi in stile con quella frontale: si tratta di due file parallele di fori equidistanti su cui è intrecciato un laccio di cuoio, e combinando le numerose coppie di buchi si regola la lunghezza della cinta.


(1) originariamente, le fibbie avrebbero dovuto essere due, ma date le dimensioni della borsa, ho optato per inserirne una sola, in quanto due sarebbero state troppo vicine. Il tutto, come sempre, tenendo fede alla definizione di artigiano fornita da M. Ridolfi: "Un artigiano è colui che elabora mentre realizza, altrimenti è un semplice esecutore."


M.

9 dicembre 2009

Simil - puukko

Il puukko è il classico coltello da caccia/lavoro a lama fissa, tradizionalmente legato alle popolazioni scandinave. La caratteristica secondo me più interessante è data dall'impugnatura, solitamente realizzata da rocchi di legno di betulla, con inserti in osso, corno oppure ottone.
A prescindere dalle realizzazioni tradizionali, personalmente apprezzo questo genere di manicature in quanto permettono di utilizzare praticamente qualsiasi materiale, avendo come unico limite il proprio (buon! ) gusto. Inoltre, sono relativamente facili da costruire, e questo ben si coniuga con le realizzazioni casalinghe.

Anche in questo caso, si tratta del "restauro" di un vecchio coltello da cucina. Anzi, ad essere precisi, si tratta di un secondo "restauro", dato che già anni fa avevo realizzato un manico in legno molto semplice.


La lunghezza originale della lama era di circa 18 cm, per 3 mm di spessore: siccome ormai non sò più che farmene degli "spadoni a due mani", l'ho accorciata di circa 6 cm, in modo da ottenere un coltello più maneggevole, quindi più adatto agli usi "da tavola" piuttosto che "da campo".

La parte più laboriosa è stata la lavorazione del codolo, che ha richiesto una pesante rettifica per poter sistemare alla perfezione tutti i componenti. Una volta montati i pezzi e ribattuto il codolo nella svasatura ricavata sul pomo (che stavolta non ho filettato, data le scarse dimensioni a disposizione), sono passato alle consuete nonchè numerose sessioni di lima, raspa e carta vetrata. La forma finale del manico è risultata un po' panciuta (forse un po' troppo panciuta!), ma le mie manone non apprezzano affatto i manici esili.

Nella parte di lama più vicina all'impugnatura ho limato una piccola porzione di metallo, in modo da facilitare l'affilatura. Infatti, in molti coltelli scandinavi, non approvo che il filo inizi a ridosso della guardia: questo ne fa inevitabilmente graffiare la faccia anteriore sulla pietra, a meno di scomode manovre.

Anche il fodero è stato realizzato in stile "scandinavo", dato che non avrebbe avuto senso realizzarne uno "classico", con cucitura laterale. Ho utilizzato del cuoio conciato al naturale di colore neutro (che ha purtroppo richiesto una doppia tintura con un colorante specifico per pellami, relativamente tossico). La realizzazione non ha presentato particolari difficoltà, aiutato dal fatto che il cuoio bagnato acquista una notevole duttilità.


Al momento manca l'affilatura, ma finchè non deciderò di utilizzarlo, lo lascerò "stagliato".

M.

28 ottobre 2009

Monti Lucretili

Il versante ovest dei Monti Lucretili: si riconoscono Monte Pellecchia (a sinistra) e Monte Gennaro (a destra).

I Monti Lucretili fanno parte dell'Appennino centrale, e rappresentano l'appendice più meridionale della catena dei Monti Sabini. Occupano un territorio che si estende fra le province di Roma (in prevalenza) e Rieti, e culminano nella cima del Monte Pellecchia, a 1368 metri.
La geologia è costituita in prevalenza da depositi di rocce calcaree e marne nel settore occidentale, e di terreni più argillosi in quello orientale. A causa di questa composizione, sono presenti numerosi nonchè estesi fenomeni carsici, di cui il Pratone ne è l'esempio più evidente.
La morfologia del territorio, unita alla sua stratigrafia, rende inoltre possibile la presenza di numerose fonti d'acqua, distribuite in modo abbastanza omogeneo.

Le tracce dello sfruttamento dell'area da parte dell'uomo risalgono addirittura al Paleolitico, testimoniabili dalla presenza di numerosi manufatti in pietra. Da quel momento, l'area vide una costante presenza antropica, culminata con la conquista dell'Italia centrale da parte dei Romani. E' a questo periodo, infatti, che risalgono le ville rustiche di cui resta traccia ancora oggi, la più famosa delle quali è sicuramente la Villa di Orazio, a Licenza.
Dopo l'espansione romana, in seguito avvenne la "contrazione" tipica del periodo medievale, in cui sorsero i numerosi castelli della zona, nonchè le fortezze e le abbazie sparse sul territorio.
In epoca molto più recente si è assistito ad un rinnovato "interesse" per l'area, culminato nella costruzione dell'albergo vicino alla cima di Monte Gennaro e della relativa funivia, che oggi versano in stato di totale abbandono. Anche la torre visibile sulla cima del Monte Morra, nonostante le sembianze "medievali", è di epoca recente: fu infatti costruita nel 1970 da tale Camillo Cruciani, da cui il nome di "torre Cruciani".

Il 26 Giugno 1989 fu istituito il Parco Regionale dei Monti Lucretili, il cui terriorio si estende per circa 18.000 ettari a cavallo di tredici comuni.
Degna di rilevanza è la presenza di una coppia di aquile reali che nidifica sul Monte Pellecchia (e che ho avuto la fortuna di avvistare, anche se da molto lontano) e quella più elusiva del lupo, che viene segnalato in aumento.

I Monti Lucretili sono stati oggetto di numerose escursioni, di cui tratterò successivamente in maniera più estesa.

M.

1 ottobre 2009

Abbazia di S. Maria in Gruptis(parte III)

Oltrepassata la chiesa, ci soffermiamo qualche momento ad osservare la gola sottostante, per poi voltare a destra e proseguire con l'esplorazione. Qui troviamo una stretta scala che conduce al piano superiore del monastero (praticamente è quello dove insiste il piano terra della torre quadrata) più alcune piccole stanze costruite a ridosso della parete di roccia. Poco più avanti, ci imbattiamo in un sottile solaio (15-20 cm nel punto centrale) sostenuto da una volta a botte, a copertura di quelli che sembrano i resti di una scala che conduce verso il basso, in direzione ortogonale rispetto alla chiesa. Ovviamente, veniamo subito attratti dalla prospettiva di scendere in qualche locale seminterrato, e veniamo subito accontentati da una piccola apertura nel muro a destra, da cui si intravede una stanza completamente buia. L'euforia è alle stelle, e ci precipitiamo subito in quella dirazione (pronunciando l'ormai celebre "ppiisc... ppiisc...", per avvertire eventuali animali selvatici della nostra presenza! ). Accendo la torcia che avevo previdentemente portato, e illumino (scarsamente, direi!) le pareti: ai nostri occhi si rivela una stanza rettangolare, apparentemente scavata nella roccia, di circa 3x5 metri, coperta da una volta a botte. Al centro del soffitto vediamo un pipistrello che, indifferente, continua a riposarsi. Il pavimento è completamente ricoperto di terra e foglie secche, tanto che sembra di camminare su un materasso. Nonostante la torcia, il buio è impenetrabile, così scatto un paio di foto col flash, con la speranza che la fotocamera riesca a mettere a fuoco qualcosa, e contemporaneamente sfruttare il lampo per cercare di cogliere qualche particolare. L'unica cosa che riesco a vedere è che la parete destra è chiusa, mentre la sinistra presenta una sorta di spaccatura alla base, ma non riesco a vedere altro. Guardando poi a casa le foto, non solo scopro che la fotocamera è riuscita a mettere perfettamente a fuoco l'ambiente, ma vedo anche che la parte sinistra della stanza era abitata da una schiera di simpatici animaletti quali enormi ragni (che poi scopro essere invece dolicopode), scorpioni e chissà cos'altro. Inoltre, la fessura che avevo intravisto grazie al flash sembra essere un passaggio, ricoperto però di terra presumibilmente franata dall'alto (foto 8).

Foto 8. L'interno della cantina, illuminato dal flash della fotocamera (le dolicopode sono ben visibili sulla parete a sinistra).

Tornati in superficie, continuiamo a costeggiare la parete rocciosa alla nostra destra, giungendo a quelle che sono le grotte vere e proprie (foto 9), cioè alcune cavità carsiche chiuse da muri e trasformate così in piccole stanze. Anche qui troviamo un pipistello appeso al soffitto, ma questo è più vivace del precedente, e infatti decide di spiccare il volo proprio mentre gli passo sotto. L'ultima stanza è quella più grande (collegata visivamente con un altro ambiente, più in alto di circa 3 metri), mentre prima di questa si incontrano due o tre stanzette molto piccole: una di esse, infatti, al suo interno è sovrastata da un enorme blocco obliquo di pietra, che crea uno spazio triangolare difficilmente sfruttabile, largo forse 2 metri e profondo ancora meno.

Foto 9. Le grotte carsiche.

Dopo aver visitato queste stanze, siamo costretti a tornare indietro, poichè la parete di roccia che chiude quest'area è troppo ripida da scalare o da aggirare. Così ritorniamo nei pressi della piccola scala che conduce al piano superiore ma, nonostante fosse formalmente integra (credo sia l'unica scala del monastero ad essere rimasta quasi intatta per tutta la sua altezza) decidiamo comunque di scavalcare un muretto e risalire così al piano intermedio, dove sono presenti numerosi ruderi di ambienti ormai irriconoscibili e completamente invasi da alberi e arbusti (foto 10). Qui troviamo uno stretto corridoio che sembra condurre in basso, ma la nostra speranza di nuovi ambienti ipogei viene subito stroncata quando, percosi pochi metri e svoltato un angolo a sinistra, scopro che termina in una specie di finestra affacciata orientativamente sopra le grotte viste in precedenza.

Foto 10. I ruderi completamente invasi dalla vegetazione.

Conclusa l'osservazione di quest'area, costeggiamo un tratto delle mura superiori, arrivando quindi in alcuni ambienti di collegamento, fra cui spicca una grande scala a pianta quadrata (purtroppo interamente crollata) (foto 11), a cui si accede da un breve corridoio, usciti dal quale ci troviamo in un piccolo chiostro (o almeno così sembrava) che confina col piano terra della grande torre. Mentre ci affacciamo da alcune aperture (una delle quali dà sull'ingresso principale dell'abbazia), sentiamo un flebile ma costante ronzio in sottofondo. Alziamo lo sguardo, e vediamo un movimento continuo di calabroni che vanno e vengono da un punto della parete che non riusciamo a vedere. Non ci facciamo caso più di tanto, visto che ormai ci stiamo quasi abituando alla loro costante presenza (e per costante intendo proprio dire che non passava un momento che non ce ne ronzasse uno intorno: mai vista una tale concentrazione). Entrati nella torre, notiamo subito l'assenza della parte centrale del soffitto, e portandoci al centro della stanza vediamo che tutti i solai interni sono mancanti del centro, in un modo quasi perfettamente circolare. Questo ci permette di osservare direttamente il tetto della torre, realizzato con cerchi concentrici di pietre legate con malta (foto 12). Usciti dalla parte opposta a cui siamo entrati, ci ritroviamo all'imbocco del sentiero, cioè nel punto in cui poco prima avevamo deciso di non entrare per non tralasciare nulla. Svoltato l'angolo, troviamo una finestra bassa che conduce al primo piano della torre. Ci arrampichiamo abbastanza facilmente e, camminando radenti alle pareti (visto il grande buco centrale) troviamo in un angolo una piccola scala a chiocchiola che conduce al piano superiore. Di essa non rimangono che i pochi gradini iniziali (scolpiti in pietra e aggettanti) e le tracce sul muro cilindrico, da cui si vede chiaramente il percorso a spirale che compiva, arrivando fino al tetto. Ai lati dello spigolo opposto, sono presenti due enormi finestre che affacciano una sull'imbocco del sentiero e l'altra sull'ingresso principale. Mentre ci accingiamo a scendere da dove siamo saliti, ci accorgiamo che quella che credevamo una finestra è in realtà un camino, la cui parete più esterna è crollata, lasciando un'apertura nel muro del tutto simile alle altre: si nota infatti, sopra di essa, una grande canna fumaria rettangolare che sale, rastremandosi, fino al tetto. L'ultimo sguardo prima di scendere è rivolto al piano superiore, di cui si intravedono alcune tracce del pavimento (foto 13).

Foto 11. Una scala, completamente crollata.

Foto 12. Il solaio di copertura, visto attraverso i due solai crollati.

Foto 13. Il secondo piano della torre.

Scesi al livello del terreno, voltiamo a sinistra in direzione delle alte mura che chiudono a nord il monastero. Appena oltrepassato lo spigolo della torre, sentiamo nuovamente quel flebile ronzio di prima. Alziamo lo sguardo verso il tetto, e troviamo finalmente la causa di quella così elevata presenza di calabroni: aggrappato alle rocce, c'è un nido veramente enorme, con uno sciame di insetti che gli ronza intorno. Ci dirigiamo rapidamente verso la fine delle mura, e mentre camminiamo lungo il perimetro assistiamo ad un effetto ottico molto suggestivo: la luce del sole al tramonto filtra attraverso le decine di buchi presenti nel muro, e illumina il bosco restrostante creando una sorta di scacchiera perfettamente regolare (foto 14).

Foto 14. Il suggestivo effetto di luce creato dal sole al tramonto.

Raggiunto lo spigolo estremo, non possiamo proseguire oltre, poichè è proprio a ridosso del precipizio (come per la chiesa, anche qui è stato sfruttato tutto lo spazio disponibile), quindi decidiamo di dirigerci verso la vicina cresta, 10-15 metri più in alto. Da lì, il panorama è spettacolare: si può osservare un lungo tratto del fiume Calore e il massiccio del Matese, che chiude le quinte sullo sfondo.

Foto 15. Lo splendido panorama osservabile dalla cima.

Riscendiamo a mezza costa per sgranocchiare qualcosa, prima di incamminarci verso la via del ritorno. Ripassiamo per l'ultima volta di fianco all'abbazia, per poi vederla infine sparire fra gli alberi via via che il sentiero sale.

M.

Abbazia di S. Maria in Gruptis (parte II)

Le rovine dell'abbazia hanno sempre stimolato la nostra curiosità: ogni volta che salivamo a Camposauro, rallentavamo per osservarla meglio, e per cercare con lo sguardo un percorso agevole per arrivarci. Ma quella presunta mancanza di interesse di cui parlavo precedentemente ci ha sempre scoraggiati, convinti che in fondo non ne valesse la pena. L'incentivo a fare un'esplorazione ravvicinata ci è stato dato dalla lettura di una guida del Parco, che descriveva brevemente l'abbazia. Una volta ottenuto il nome, è stato relativamente facile raccogliere informazioni al riguardo, soprattutto sul modo per raggiungere il luogo in questione. Inoltre, una leggenda riportata da alcune fonti narra di un fantomatico cunicolo che condurrebbe ad una stanza segreta all'interno della montagna: nonostante fossimo convinti della sua scarsa attendibilità, è stato un richiamo irresistibile.

Lasciata la macchina lungo la strada provinciale, iniziamo a scendere verso la piccola valle ai piedi del monte Pentime, seguendo una stradina asfaltata (stradina facilmente percorribile in auto, se il tratto iniziale, abbastanza sconnesso, non ci avesse dissuaso dal procedere). In lontananza si vedono le rovine dell'abbazia, a circa 2 km in linea d'aria (foto 1).

Foto 1. La distanza che ci separa dai ruderi dell'abbazia.

La strada prosegue quasi interamente in linea retta, terminando improvvisamente davanti ad un cancello: ci rendiamo quindi conto che bisognava imboccare il sentiero non segnalato incontrato un centinaio di metri prima. Intravedendolo a qualche decina di metri da noi, nel bosco, decidiamo di arrampicarci sul ripido pendio alla nostra destra anzichè tornare indietro. Raggiungiamo un punto in cui una piccola frana ha fatto letteralmente traslare un pezzo di sentiero verso il basso (foto 2), e ci abbiamo messo qualche secondo per capire cosa fosse successo, poichè la linea della frana era talmente netta che sembrava un gradino quasi fatto apposta.

Foto 2. La frana e i relativi effetti.

Proseguiamo lungo il percorso lastricato senza particolari difficoltà data la ridotta pendenza, salvo alcuni tratti più ripidi in cui piega su sè stesso per aggirare ostacoli o per scendere comunque di quota, dato che viaggia ben più alto del monastero. Il sentiero è comunque pulito e ben tenuto (a parte un albero caduto incontrato pochi metri dopo la frana), e l'escursione diventa quasi una passeggiata. Avvicinandoci alla meta, il terreno circostante diventa marcatamente roccioso, con presenza di enormi massi affioranti che creano piccole grotte e anfratti (del resto, il toponimo del monastero non è casuale). Arrivati in prossimità dei ruderi, ecco emergere la torre in tutta la sua imponenza.

Foto 3. La torre quadrata.

Al piano terra è presente un'apertura, ma per evitare di tralasciare qualcosa decidiamo di non entrare e di scendere ulteriormente lungo il sentiero, per arrivare infine a quello che in origine era l'ingresso vero e proprio dell'abbazia (foto 4). Purtroppo la parte di muro intorno al portone è stata ricostruita recentemente, cementando pietre raccolte in loco: al livello storico è un pugno in un occhio, ma esteticamente rende abbastanza bene (se non altro, si capisce palesemente l'incongruenza, quindi si evitano false datazioni). Una volta entrati, ci si trova in un ambiente di forma rettangolare, con sulla destra un muro continuo alto forse tre metri (vado a memoria), mentre sulla sinistra, in prossimità dell'ingresso, troviamo una bassa apertura che dà su una piccola scala che conduce al primo piano, sovrastante l'ingresso (foto 5).
Foto 4. L'ingresso dell'abbazia.

Foto 5. La parte interna dell'ingresso.

Ci rendiamo subito conto della precarietà della struttura, in aggiunta al pericolo intrinseco dato dall'immediata vicinanza delle mura esterne al precipizio. Camminiamo su un pavimento costituito da tegole e pietre più o meno grandi miste a un'enorme quantità di terra, il tutto tenuto ben saldo dalle radici dei numerosi alberi cresciuti all'interno degli edifici. In asse con l'ingresso, dopo questo primo ambiente, troviamo quello che presumo sia una sorta di chiostro, dato che poco più avanti c'è l'ingresso della chiesa (una chiesa "interna", cioè accessibile da un corridoio o da una stanza la vedo poco probabile, quindi suppongo avesse una facciata esterna). Di essa non rimangono che pochi resti, rappresentati da alcuni tratti del muro anteriore (con la base dei pilastri dell'ingresso realizzata in pietra, oltre ad una mensola sul lato destro squadrata con sorpendete precisione) (foto 6) e di quello posteriore, in cui si intravede un arco a sesto acuto, i frammenti laterali della crociera e ciò che rimane della piccola abside (foto 7). Questo edificio fu costruito sfruttando tutto lo spazio a disposizione, tant'è che la parete di fondo è vicinissima al precipizio. I costoloni, privi di qualsiasi modanatura, sono realizzati da conci in pietra inframezzati da sottili lastre di laterizio.

Foto 6. I resti dei pilastri all'ingresso.

Foto 7. La parte posteriore della chiesa.

M.

29 settembre 2009

Abbazia di S. Maria in Gruptis (parte I)

Il monastero di S. Maria in Gruptis sorge sul versante sud-occidentale del Monte Pentime, nel territorio del Parco Regionale del Taburno-Camposauro. Fu eretto fra il 940 e il 944 dai Longobardi (stabilitisi nel beneventano oltre tre secoli prima) e fu dedicato alla Madonna, anche se altre fonti posticipano la consacrazione in quanto la struttura potrebbe aver inizialmente avuto funzione di avamposto militare, data la sua posizione strategica.
Eretto a mezza costa sul pendio orientale della stretta gola detta "il funno" o "il puzzillo", subì numerosi interventi architettonici, molti dei quali in conseguenza di disastrosi eventi naturali quali terremoti e incendi.
I primi abitanti dell'abbazia furono i monaci Benedettini, seguiti dai Celestini nel 1264 e quindi dagli Umiliati nel 1303. Successivamente restituita ai Benedettini, fu infine affidata ai Camaldolesi nel 1660, che la abitarono fino al devastante terremoto del 5 Giugno 1688 (XI° della scala Mercalli), che arrecò gravi danni alla struttura. In conseguenza di ciò, e oltre al fatto che ormai era diventata oggetto di ripetute incursioni da parte dei briganti, il cardinale V.M. Orsini (arcivescovo di Benevento e futuro Papa Benedetto XIII), ne ordinò l'abbandono, sconsacrandola definitivamente nel 1705 durante una visita pastorale.

Vista dell'abbazia dalla provinciale che da Solopaca porta a Vitulano.

Attualmente rimangono visibili solo dei ruderi, ma nonostante questo si riesce facilmente a ricostruire la conformazione originaria: oltre alla torre e alle mura esterne (gli elementi meglio conservati), si trovano i resti della chiesa (in asse con l'ingresso principale e a ridosso del precipizio), delle cantine e delle aree destinate ai frati (a destra della chiesa), unite ad una serie di altri ambienti di collegamento, come alcune rampe di scale conservate relativamente bene.
A causa del crollo di quasi tutte le coperture (gli unici ambienti coperti sono la torre quadrata e qualche stanza, soprattutto quelle ricavate nelle grotte carsiche) la struttura è completamente invasa da alberi e arbusti, in un modo talmente uniforme che sembra quasi che siano le rovine a dover faticare per preservare il proprio "spazio vitale", e non viceversa. Proprio per questo, la gran parte delle costruzioni è completamente celata allo sguardo, dando l'impressione, da lontano, che il luogo sia privo di qualsiasi interesse. Ed è proprio questa presunta mancanza di interesse che ci ha spinto ad un'osservazione ravvicinata, perchè, per dirla in parole povere, volevamo toglierci il dubbio.

M.

4 settembre 2009

Ferri taglienti

Abbandonata (per mere questioni di tempistica) la forgiatura delle lame, le ultime realizzazioni hanno riguardato il "restauro" di vecchi coltelli trovati in casa: oltre alla semplificazione che questo processo comporta (non devo più attendere settimane se non mesi prima di riuscire a terminare una lama), mi piace molto l'idea di utilizzare uno strumento usato da chissà quanto tempo, prolungandone così la vita utile.

Finora avevo restaurato solo coltelli "da cucina", cioè lame di una certa lunghezza ma di spessore relativamente ridotto (2-3 mm). In questo caso siamo decisamente in un altro ambito, dati i 6,7 mm di spessore alla guardia. Sinceramente non so cosa fosse in origine, dato che la lama era semplicemente dotata di due pezzi di legno appena sgrossati, tenuti insieme da un paio di ribattini e un po' di fil di ferro. L'unica spiegazione plausibile è che fosse una sorta di baionetta o qualcosa di simile, considerato il parziale controfilo e la larghezza della lama. Quest'ultima presentava una forma ondulata molto marcata, tipica delle lame consumate dalle numerose affilature, il che lasciava supporre una larghezza originale di 3,5, forse addirittura 4 cm.

L'impugnatura, per la prima volta, l'ho realizzata con dischi di cuoio, alla maniera dei coltelli nordici. Siccome il codolo era relativamente corto, ho dovuto ricavare uno scasso nella parte terminale per fissarci qualche cm di barra filettata, tramite saldo-brasatura all'argento (aumentando il valore dell'oggetto! ).
Una volta sagomati tutti gli elementi, ho proceduto con il montaggio, terminando con l'avvitatura del pomo e la successiva ribattitura di quei pochi mm di barra filettata che sporgevano.
Dopo numerose sessioni di carta vetrata, aggiustamenti finali e la realizzazione del fodero in cuoio (lo stesso usato per l'impugnatura) questo è il risultato:


L'ho utilizzato seriamente solo qualche settimana fa, e devo dire che non mi ha deluso, dimostrandosi molto efficace nell'intaccare a mo' di ascia alcuni rami secchi piuttosto spessi. Del resto, il suo impiego principale saranno i lavori pesanti, visto che per quelli piccoli dispongo già di varia "minuteria".

M.

20 agosto 2009

Bivacco a Camposauro

Finalmente sono riuscito a bivaccare a Camposauro, anche se per una notte soltanto. Da anni volevo farlo, perchè di notte la montagna rivela aspetti totalmente diversi nonchè interessanti, e volevo soddisfare la mia curiosità al riguardo.

Non potendo portare da casa tutto l'equipaggiamento, ho dovuto rinunciare a molte cose, fra cui il sacco a pelo e la Trangia: per il primo, avevo già pensato di sostituirlo con qualche coperta, mentre per la seconda avrei ovviato col fuoco di bivacco.

Dopo alcuni ripensamenti, alla fine siamo partiti in tre ("In tre si è in compagnia"), e dopo aver raccolto la legna e aver piazzato l'accampamento, ci siamo subito dedicati ad una sostanziosa merenda (erano circa le 19!) a base di pecorino, salsiccia secca piccante e pane, il tutto annaffiato con del buon Barbera e dell'ottimo Aglianico (entrambi della zona). Nonostante sia stata ribattezzata "merenda Hobbit" (il che lascerebbe intendere che sia qualcosa in versione ridotta) è stata invece una vera e propria abbuffata, tant'è che la cena a base di carne arrostita è stata posticipata. Degna di nota anche la suddetta carne, divorata a mani nude in pieno delirio selvatico, e accompagnata dall'immancabile vino.
Il dopo cena è stato dedicato all'osservazione del cielo stellato, che ci ha svelato la magnificenza della Via Lattea, attraversata da decine di meteore. Il sopraggiungere delle nubi, poi, ci ha poi convinti a rientrare nelle tende.


La notte è passata fra non pochi risvegli, causati dai rumori degli animali notturni (su tutti, un maledetto cavallo che in piena notte ha pensato bene di nitrire fragorosamente a pochi metri dalle tende), e dalla brandina su cui "dormivo", talmente scomoda che al mattino avevo la schiena completamente indolenzita. Le due coperte che ho usato hanno svolto benissimo il loro compito (la temperatura all'arrivo era di 19°, quindi nella notte sarà scesa credo intorno ai 12°-13°): sono due coperte in lana, fabbricate in Usa nel 1943 e facenti parte della dotazione dell'esercito americano durante la Seconda Guerra Mondiale. Praticamente due cimeli storici, ma nonostante questo sono molto efficaci, pur nella loro sottigliezza, grazie all'elevata densità del tessuto (una di queste la uso abitualmente a casa d'inverno).

La giornata seguente è iniziata con una sostanziosa colazione fatta verso le 8:30, seguita da uno "spuntino" fatto dopo le 9. Praticamente siamo andati lassù per mangiare e bere, altrochè! Eheheheh...
La mattinata seguente è trascorsa fra la raccolta della legna, una breve passeggiata fatta con la speranza di trovare qualcosa di commestibile, in pieno spirito silvestre (gli unici due funghi trovati, oltre a non essere commestibili, erano anche di legno, tanto erano secchi), qualche chiacchiera scambiata con alcuni autoctoni e un po' di foto scattate ad una piccola mandria di cavalli, venuti ad abbeverarsi al fontanile poco distante dall'accampamento.

All'ora di pranzo, riacceso il fuoco, abbiamo cucinato della pasta con sugo all'amatriciana (sugo pronto, decisamente poco silvestre, ma ho ampiamente recuperato mangiando con una forchetta realizzata al volo con un rametto di faggio), mentre da parte arrostivamo alcune salsicce, accompagnate poi dall'ultima bottiglia di Barbera rimasta.
Dopo un breve riposo sotto i faggi, abbiamo smontato l'accampamento e siamo infine scesi a valle.

Nonostante la scarsità di equipaggiamento, l'esperienza è stata decisamente positiva.
Quando abbiamo scelto il posto per attendarci, ho rimpianto di non aver avuto con me l'amaca, ma da come è passata la notte forse è stato un bene. Ottima la doccia da campo, comprata il giorno prima solo perchè la cercavo da tempo: anche utilizzata come semplice riserva d'acqua, rimane molto pratica e comoda (ricordandosi ovviamente di tenerla all'ombra, in questo caso). Piacevole novità quella del "cibo tradizionale", sicuramente da ripetere anche in altre situazioni: a scapito di un leggero incremento di peso, il guadagno in termini psicologici è fin troppo evidente (no, non sto parlando del vino!). E poi è dannantamente silvestre!

Unico rimpianto, non essere andati sul versante Nord ad ammirare il panorama offerto dalla Valle Telesina illuminata da migliaia di luci. Sarà una buona scusa per tornarci!

M.

19 agosto 2009

Camposauro

Il primo messaggio non potevo che dedicarlo a quello che, col passare del tempo, per me è ormai diventato una sorta di archetipo della montagna: Camposauro.
Questo massiccio montuoso, facente parte del Parco Regionale del Taburno-Camposauro (situato nella provincia di Benevento), racchiude in sè la quasi totalità delle caratteristiche che più apprezzo dell'ambiente montano e boschivo.
L'orografia del territorio offre scorci paesaggistici davvero notevoli, enfatizzati dagli estesi boschi di latifoglie, che si alternano a pietraie o a radure più o meno estese. Il baricentro è rappresentato dal celebre pianoro, sovrastato dal Monte Camposauro che, con i suoi 1338 metri, domina l'intera area.
La vicinanza ai centri abitati (il parco ne è praticamente circondato) ha fatto si che l'ambiente risulti fortemente antropizzato (soprattutto negli aspetti più negativi che ciò significa, purtroppo) ma ha anche permesso di sviluppare uno stretto rapporto con la montagna, facendo sì che non risulti un elemento distante ed isolato, ma sia parte integrante del territorio.

Il versante nord del Taburno-Camposauro.

M.