29 settembre 2009

Abbazia di S. Maria in Gruptis (parte I)

Il monastero di S. Maria in Gruptis sorge sul versante sud-occidentale del Monte Pentime, nel territorio del Parco Regionale del Taburno-Camposauro. Fu eretto fra il 940 e il 944 dai Longobardi (stabilitisi nel beneventano oltre tre secoli prima) e fu dedicato alla Madonna, anche se altre fonti posticipano la consacrazione in quanto la struttura potrebbe aver inizialmente avuto funzione di avamposto militare, data la sua posizione strategica.
Eretto a mezza costa sul pendio orientale della stretta gola detta "il funno" o "il puzzillo", subì numerosi interventi architettonici, molti dei quali in conseguenza di disastrosi eventi naturali quali terremoti e incendi.
I primi abitanti dell'abbazia furono i monaci Benedettini, seguiti dai Celestini nel 1264 e quindi dagli Umiliati nel 1303. Successivamente restituita ai Benedettini, fu infine affidata ai Camaldolesi nel 1660, che la abitarono fino al devastante terremoto del 5 Giugno 1688 (XI° della scala Mercalli), che arrecò gravi danni alla struttura. In conseguenza di ciò, e oltre al fatto che ormai era diventata oggetto di ripetute incursioni da parte dei briganti, il cardinale V.M. Orsini (arcivescovo di Benevento e futuro Papa Benedetto XIII), ne ordinò l'abbandono, sconsacrandola definitivamente nel 1705 durante una visita pastorale.

Vista dell'abbazia dalla provinciale che da Solopaca porta a Vitulano.

Attualmente rimangono visibili solo dei ruderi, ma nonostante questo si riesce facilmente a ricostruire la conformazione originaria: oltre alla torre e alle mura esterne (gli elementi meglio conservati), si trovano i resti della chiesa (in asse con l'ingresso principale e a ridosso del precipizio), delle cantine e delle aree destinate ai frati (a destra della chiesa), unite ad una serie di altri ambienti di collegamento, come alcune rampe di scale conservate relativamente bene.
A causa del crollo di quasi tutte le coperture (gli unici ambienti coperti sono la torre quadrata e qualche stanza, soprattutto quelle ricavate nelle grotte carsiche) la struttura è completamente invasa da alberi e arbusti, in un modo talmente uniforme che sembra quasi che siano le rovine a dover faticare per preservare il proprio "spazio vitale", e non viceversa. Proprio per questo, la gran parte delle costruzioni è completamente celata allo sguardo, dando l'impressione, da lontano, che il luogo sia privo di qualsiasi interesse. Ed è proprio questa presunta mancanza di interesse che ci ha spinto ad un'osservazione ravvicinata, perchè, per dirla in parole povere, volevamo toglierci il dubbio.

M.

4 settembre 2009

Ferri taglienti

Abbandonata (per mere questioni di tempistica) la forgiatura delle lame, le ultime realizzazioni hanno riguardato il "restauro" di vecchi coltelli trovati in casa: oltre alla semplificazione che questo processo comporta (non devo più attendere settimane se non mesi prima di riuscire a terminare una lama), mi piace molto l'idea di utilizzare uno strumento usato da chissà quanto tempo, prolungandone così la vita utile.

Finora avevo restaurato solo coltelli "da cucina", cioè lame di una certa lunghezza ma di spessore relativamente ridotto (2-3 mm). In questo caso siamo decisamente in un altro ambito, dati i 6,7 mm di spessore alla guardia. Sinceramente non so cosa fosse in origine, dato che la lama era semplicemente dotata di due pezzi di legno appena sgrossati, tenuti insieme da un paio di ribattini e un po' di fil di ferro. L'unica spiegazione plausibile è che fosse una sorta di baionetta o qualcosa di simile, considerato il parziale controfilo e la larghezza della lama. Quest'ultima presentava una forma ondulata molto marcata, tipica delle lame consumate dalle numerose affilature, il che lasciava supporre una larghezza originale di 3,5, forse addirittura 4 cm.

L'impugnatura, per la prima volta, l'ho realizzata con dischi di cuoio, alla maniera dei coltelli nordici. Siccome il codolo era relativamente corto, ho dovuto ricavare uno scasso nella parte terminale per fissarci qualche cm di barra filettata, tramite saldo-brasatura all'argento (aumentando il valore dell'oggetto! ).
Una volta sagomati tutti gli elementi, ho proceduto con il montaggio, terminando con l'avvitatura del pomo e la successiva ribattitura di quei pochi mm di barra filettata che sporgevano.
Dopo numerose sessioni di carta vetrata, aggiustamenti finali e la realizzazione del fodero in cuoio (lo stesso usato per l'impugnatura) questo è il risultato:


L'ho utilizzato seriamente solo qualche settimana fa, e devo dire che non mi ha deluso, dimostrandosi molto efficace nell'intaccare a mo' di ascia alcuni rami secchi piuttosto spessi. Del resto, il suo impiego principale saranno i lavori pesanti, visto che per quelli piccoli dispongo già di varia "minuteria".

M.